EDUCAZIONE INNOVATIVA: IL PERSONAGGIO: INTERVISTA AD ANGELA MALFITANO

ANGELA MALFITANO:

UN’ECCEZIONE E UN’ECCELLENZA ITALIANE

 

 

di Elisa Pedini

 

 

È, per me, un grande onore ospitare su «Kainós Magazine®» la Professoressa Angela Malfitano.

Figura rara, preziosa e di grande vanto per il panorama educativo e per il mondo accademico italiani.

Angela Malfitano rappresenta l’unico, vero, esempio, in Italia, pregresso alla nascita della “Kainós Academy®”, di Form-attrice completa e attiva.

Per questa ragione, è necessario che io vi presenti il suo percorso formativo, lungo e molto duro, che l’ha portata a essere una figura di spicco dell’educazione innovativa.

Essere form-attori non è da tutti e non è per tutti.

Occorrono determinazione, forza di volontà, abnegazione, passione e spirito di sacrificio. Occorre essere pronti a investire anni di duro lavoro, pedissequo e contestuale, sia sui banchi di scuola, che sul palcoscenico.

Sotto questo punto di vista, Angela Malfitano, è una figura veramente unica.

Si diploma, nel 1981, presso l’Accademia d’Arte Drammatica Antoniana di Bologna. Nel 1989, si laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l’Alma Mater Studiorum. La sua carriera artistica inizia già a diciannove anni, sotto l’egida del Maestro Leo De Berardinis, di cui, ella stessa ci parla nell’intervista.

Da allora, Angela Malfitano ha continuato a formarsi e a studiare, sia come attrice, fino ad affermarsi sulla scena e diventare, ella stessa, regista e produttrice di progetti teatrali e direttore artistico di manifestazioni e rassegne; sia come docente universitaria, fino ad arrivare a essere titolare dell’insegnamento “Tecniche di Presentazione Orale”, presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell’Alma Mater Studiorum e docente e coordinatrice del “Corso Attori” presso l’Università di Pavia.

Ovviamente, oggi, è qui con me, per parlarci di quanto abbiamo in comune: ovvero, la sua esperienza di didattica innovativa, con il teatro e nel teatro.

 

 

D: Angela, comincerei con una tua frase: «Il palcoscenico è una tavolozza bianca su cui ridisegnare l’universo». Potresti spiegare cosa significa e cosa implica per uno studente?

AM: Questa frase, in verità, l’ha detta Leo De Berardinis, che è stato mio maestro e non solo d’arte, ma anche di spirito. Indica la “strada chiave”: un percorso spirituale, mentale e fisico d’apertura mentale, di scioglimento dei preconcetti e delle infrastrutture mentali. Significa fare pulizia.

Lo studente deve imparare a porsi senza pregiudizi verso se stesso e verso gli altri. Dove c’è sofismo, giudizio, fraintendimento, non può esserci arte.

Il teatro esige che ci si apra, ci si affidi totalmente al pubblico e per fare questo, bisogna azzerarsi, ogni volta.

Da questo punto di vista, si può dire che l’artista sia sempre “giovane”, perché fa sgorgare il nuovo, l’inespresso, ogni volta.

 

D: Come si traduce in pratica?

AM: Si tratta d’un lavoro, strutturato, che inizia con il respiro.

Come in ogni percorso, è importante da dove partiamo. Le tappe sono precise: corpo-respiro-voce.

Significa: scioglimento fisico, respiratorio, vocale. Più lo studente è rapido nel recepire e nello svuotarsi, più avrà benefici e risultati. Si entra in contatto con le proprie energie e l’energia altrui. Parliamo proprio di metaenergia, d’una forza tangibile.

Il teatro è tutto questo: è forma energetica di primo livello.

 

D: Angela, potresti definirci il percorso corpo-respiro-voce?

AM: Certamente! Il lavoro che si fa, all’inizio è uguale sia per gli attori che per gli interpreti. Per “interprete” intendo tutte le persone che lavorano, o lavoreranno con la lingua, sia madre che straniera e le parole. Si parte col corpo e con la respirazione.

In altre parole, con la presa di coscienza del movimento e del proprio corpo. Le varie parti del corpo vengono sciolte attraverso esercizi mirati. Insisto molto su collo, petto e spalle perché sono la sede, biologica e spirituale, delle emozioni, quindi, sono quelle parti che risultano maggiormente sottoposte a tensione.

Come ho già detto, si tratta d’uno scioglimento fisico, respiratorio ed emotivo.

Infatti, contestualmente, si lavora sulla voce, ovvero sull’estensione del diaframma, sui diversi timbri, sulla dizione, sulla fonetica e sui risuonatori interni e sulla gestualità, ovvero, sul sapersi porre e sul saper porre l’argomento di cui si parla. Insisto moltissimo anche su quest’ultimo aspetto.

Bisogna provare il “piacere di trasmettere”. Bisogna amare ciò che si dice e desiderare di trasmetterlo. Un concetto chiave. Sembra semplice a parole, ma, è molto complesso in realtà. Si tratta d’un processo interiore molto profondo.

Esprimersi davanti a un pubblico, è profondamente legato alla crescita personale e al miglioramento della persona. Sono aspetti che non posso essere scissi. Non si può mentire davanti a un pubblico, perché si vede, si percepisce. Non si può essere malintenzionati.

Il teatro è fondamentale in questa opera di denudamento, perché obbliga a esporsi. Bisogna affidarsi al proprio pubblico, che, a lezione, è costituito dai compagni e dall’insegnante. Il professore è colui che guida nell’apprendimento. Nell’insegnamento c’è una grossa responsabilità. Questo passaggio di “esposizione” è quello che screma i malintenzionati, quelli che non hanno motivazione in quello che fanno.

 

D: Relativamente al “piacere di trasmettere”, cito di nuovo le tue parole, Angela: «non imparare a memoria, ma padroneggiare». Che significa?

AM: Il percorso d’apprendimento che prevede un lavoro sulla postura, sulla respirazione, sulla dizione e sulla fonetica, è volto proprio al “padroneggiare”, o meglio, all’“appropriarsi”.

In altre parole, all’interiorizzare, al fare proprie le regole e le eccezioni della cosiddetta “lingua standard”, perché è quella che esercita l’interprete e in generale, tutti quelli che lavorano con le parole.

Mentre la lingua straniera viene insegnata e si cerca d’apprenderla, con buone dizione e fonetica, l’italiano si parla con le cadenze regionali. Tuttavia, una lingua spendibile professionalmente, va usata con la dizione corretta. Ovvio, c’è contesto e contesto, per questo si parla di registri. Quello “familiare” e quello “standard”. Il primo, lo si dovrebbe utilizzare in contesti personali, il secondo, in quelli professionali. Purtroppo, nelle scuole italiane, è un aspetto completamente tralasciato.

L’uso d’una corretta dizione segna un po’ il solco tra gli studenti di teatro, ovvero i futuri attori, che sono molto motivati nel correggere la dizione e gli interpreti. I primi tre mesi di corso servono per apprendere proprio il percorso dell’espressività: postura-respirazione-voce-gestualità-fonetica-dizione.

Bisogna arrivare ad appropriarsi del “discorso”: dall’organizzazione dei concetti, fino all’esposizione. La simulazione d’intervento in classe serve a questo. Non s’impara a memoria, si fa una scaletta coi concetti chiave: premessa, sviluppo, conclusioni.

Inoltre, il pubblico va tenuto sempre come punto di riferimento. Tutto il pubblico, perché la platea è composta sia dalle prime file, che dalle ultime.

Infine, la postura: mantenere la simmetria corporea, bilanciando il peso e restare morbidi. Sempre morbidezza, mai rigidità.

 

D: Aula regolare vs aula teatrale. Potresti darci il tuo punto di vista?

AM: Qualunque aula regolare, può diventare un’aula teatrale, in teoria. In pratica, una volta, mi sono trovata in un’aula con le sedie inchiodate. Il teatro è libertà, non ha nulla a che fare con una sedia inchiodata. Un’aula teatrale è, innanzi tutto, svuotamento, sia fisico, che mentale. Le sedie e i banchi si spostano, soprattutto, nella prima parte di lezione, quando si fa laboratorio. Poi, nella parte “interpretativa” di simulazione, quello che parla può salire in cattedra e gli altri possono pure sedersi per fare il pubblico. Ad ogni modo, cerco sempre di non trovarmi mai in situazioni di lezione frontale classica.

 

 

 

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