EDUCAZIONE INNOVATIVA: IL PERSONAGGIO: INTERVISTA A RENZO MARTINELLI
IL CINEMA COME MAIEUTICA E CULTURA
INTERVISTA A RENZO MARTINELLI
di Elisa Pedini
Oggi, per la rubrica “Il personaggio”, su «Kainós Magazine®», ospito, orgogliosamente, un uomo straordinario, che stimo e apprezzo profondamente: Renzo Martinelli.
Molto famoso per essere un regista fortemente impegnato e calato nella realtà storica italiana, muovendosi tra le pieghe oscure dei più scabrosi avvenimenti della nostra cronaca, a tutt’oggi ben poco chiari e farsene testimone storico.
Tuttavia, Renzo, è anche scrittore, sceneggiatore, produttore e docente di regia alla scuola di cinema di Cinecittà, la Act Multimedia. Sono molti gli aspetti che fanno di Renzo un uomo eccezionale: la sua affabilità, la sua intelligenza acuta, la sua cultura, profonda e accurata, dovuta a studi continui e maniacali, come lui stesso ci dice nell’intervista.
Soprattutto, quello che è speciale in lui, è la sua estrema generosità intellettuale: da che lo conosco, non si è mai risparmiato nello spiegare, nel condividere, nel far crescere chi conversa con lui.
Ovviamente, oggi, è qui con me, per parlare di quanto ci accomuna: la visione del cinema come cultura, l’insegnamento e il suo «coinvolgere» i ragazzi.
D: Renzo, potresti spiegarci come ti approcci ai tuoi studenti?
RM: Per spiegare, partirei con una frase di Marc Bloch: «l’incomprensione del presente, nasce dall’ignoranza del passato» (ctz.: Bloch M., cap. I, “Apologia della storia”. Storico francese che sosteneva che il compito dello studioso fosse fare la «cernita del vero e del falso»; n.d.r.).
Le basi sono: studiare, documentarsi e conoscere.
Non è vero che i giovani sono indifferenti e non s’interessano a nulla. Se li coinvolgi e li rendi partecipanti attivi, i giovani s’incuriosiscono, eccome!
Cercano, approfondiscono, perché fa parte della loro natura avere un innato interesse per la conoscenza, la scoperta e la verità.
Lo vidi con “Ustica”, per esempio. Nessuno dei miei studenti era nato ai tempi della strage, eppure, si sono interessati e hanno approfondito, con entusiasmo e interesse.
Inoltre, il cinema ha un valore maieutico molto forte.
Il cinema riesce a evocare una qualsiasi tematica storica e a riportarla in vita, consentendo una profonda ricerca della verità.
Le linee guida che ho sempre rigidamente seguito per svolgere il mio lavoro di scrittore e regista, sono le stesse che seguo e che insegno ai miei ragazzi: studiare, approfondire, ricercare sempre la verità e non fermarsi mai alle apparenze.
D: Come si traduce questo lavoro per gli studenti?
RM: Si parte sempre dallo studio maniacale della documentazione, degli atti, delle fonti e della storia. Questo materiale diventa, poi, materiale drammaturgico.
Quello che voglio dai miei ragazzi è che vadano oltre la realtà rivelata.
Non c’è nessun fatto su cui si sappia con certezza come siano andati i fatti, su cui si sappia la verità.
In particolare, per gli argomenti che tratto nei miei film e vale per tutti, da Porzus a Ustica passando per Vajont e Piazza delle Cinque Lune, c’è una ragion di stato che interviene per coprire e manipolare. Ogni film ha richiesto circa tre anni di studi, ricerche, approfondimenti.
Quello che voglio dai miei ragazzi è, di fatto, quello che io, per primo, faccio: che scavino a fondo, che si pongano domande.
D: Una cosa che mi ha profondamente affascinata dei tuoi film sono i personaggi: nessuno di loro è superfluo o inconsistente; tutti hanno un ruolo e una motivazione. Renzo, ci potresti parlare del lavoro sui personaggi?
RM: La realtà dei personaggi è un passaggio obbligatorio quando ti fai testimone della storia.
Quando tratti certe tematiche, il pubblico arriva in sala scettico e se il personaggio non è forte e con radici ben solide, sia esso effettivamente storico o inventato per esigenze di fiction, non sta in piedi nulla, crolla tutto.
Lo studio approfondito e maniacale che faccio e che chiedo ai ragazzi, non riguarda solo i fatti, ma anche le persone che sono state protagoniste di quei fatti. Ci devono essere spessore e verità per portare la gente a interrogarsi.
Ti faccio un esempio, il 16 marzo ricorreva il quarantennale del sequestro Moro. Ho visto molti documentari e servizi, ma nessuno è andato a fondo sulla questione. Una rievocazione sterile di cui tutti si saranno già dimenticati.
D: Un’altra cosa che è estremamente affascinante, è proprio il tuo modo, direi unico, di fare regia. Ce ne puoi parlare e dirci, anche, come la insegni ai tuoi ragazzi?
RM: Quando c’è una realtà scomoda da raccontare, si creano due esigenze: un’esigenza documentale e un’esigenza spettacolare.
Furio Scarpelli mi diceva sempre che io so «insegnare emozionando». Ecco, penso che sia una descrizione bellissima. Quello che voglio è cercare di spingere sempre ad approfondire e a passare tutto al filtro del dubbio e le emozioni aiutano a fissare nella memoria.
Il mio modo di fare regia dipende dalla grande padronanza del mezzo usato. Esattamente come i pittori fiamminghi dominavano totalmente la tecnica, tanto da creare loro stessi i colori più particolari, così, il regista, deve conoscere ogni aspetto della tecnica e tutte le infinite potenzialità della telecamera.
I miei obiettivi vanno dall’8mm al 1600mm e li uso tutti, perché voglio che le inquadrature rispecchino tutte le diverse prospettive della realtà.
Il 50mm, per esempio, riproduce, esattamente, l’occhio umano. Una ripresa con un 50mm dà proprio l’angolo di 43o, che corrisponde al diaframma dell’occhio umano, dunque ne riproduce la visione prospettica.
In verità, io lo uso pochissimo, quasi mai, perché voglio riprodurre, esattamente, quello che ho in testa. Cambiare le “ottiche”, quindi, le prospettive, mi consente di fornire messaggi psicologici diversi.
Il set non può essere affidato a mille persone differenti. Si è registi in tutto e il set va curato in ogni dettaglio.
Il regista ha uno strumento in mano che consente di dare alle tematiche più spinose quella caratura di spettacolarità necessaria per farle immettere sul mercato in modo potente.
Tuttavia, è molto difficile passare la passione per la tecnica agli studenti. S’appassionano per tutto, ma non per la tecnica, perché è come se fosse percepita come un qualcosa di secondario, come se l’arte fosse superiore alla tecnica.
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