CARAVAGGIO – L’anima e il sangue: recensione al film
CARAVAGGIO – L’ANIMA E IL SANGUE
Recensione al film
di Elisa Pedini
Caravaggio – l’anima e il sangue, in replica straordinaria nei cinema italiani solo per oggi, 27 marzo e domani, 28 marzo (tutte le sale su: www.nexodigital.it).
Un docu-film avvincente, da non perdere, perché, non è solo un modo per vedere e sentir raccontare l’opera del Caravaggio, ma è realmente un viaggio all’interno della sua anima e di come questa, grandeggiante, misteriosa e travagliata, abbia, di fatto, parlato di sé attraverso le mani di Michelangelo, attraverso il suo sguardo sulla realtà e dunque, attraverso i suoi immortali capolavori.
Un’anima che ha saputo, esattamente, rendersi, davvero, eterna, attraverso l’arte, a dispetto dei detrattori, delle tragedie, del dolore.
Un viaggio fatto di percezioni, fatto di anima, con l’anima e per l’anima.
Sogna e insegue la libertà, Michelangelo, ma non riesce a difenderla, né da se stesso, né dagli eventi. Con questa riflessione apre Caravaggio – l’anima e il sangue.
Nel 2007, viene ritrovato il certificato di battesimo di Michelangelo, che consente di fare una scoperta: egli non nacque a Caravaggio, ma a Milano, il 29 settembre, giorno di San Michele Arcangelo, di cui porta il nome e ivi fu battezzato il giorno 30, presso la chiesa di Santo Stefano in Brolo.
I genitori fanno ritorno a Caravaggio, quando Michelangelo ha sei anni, a causa della peste che piaga Milano.
Tuttavia, la famiglia ne esce comunque decimata, perché il padre, il nonno e lo zio, muoiono.
Nulla è noto relativamente alle opere del suo apprendistato che svolge col Peterzano, il quale, probabilmente, fa studiare l’Ultima cena di Leonardo ed è altrettanto probabile che il Canestro di frutta, che Caravaggio dipinge, sia ispirata proprio a quella cesta sulla tavola, oggi, purtroppo, quasi invisibile.
Quello che risalta subito di quest’opera sono due aspetti che caratterizzeranno sempre l’arte del Caravaggio: primo, non c’è sfondo, è quasi un non-luogo, una dimensione metafisica, Verrebbe da dire, una dimensione dell’anima. Secondo, la canestra sporge, sembra quasi venir fuori dalla tela, è come se l’arte richiamasse chi guarda.
Nel 1594, per circostanze poco chiare, forse perché uccide un uomo, Caravaggio lascia Milano e arriva a Roma, squattrinato e turbato.
Lascio a voi scoprire cosa succede in questo primo periodo romano, mentre mi soffermo sulla sua anima.
Caravaggio è usualmente descritto e pensato come un artista ombroso e solitario, ma, in verità, non è così: è molto calato nella sua realtà e ha rapporti strettissimi coi colleghi.
La voce del suo Io, offerta da Manuel Agnelli, ci fa riflettere su una considerazione, che, spesso, studiando Caravaggio, mi sono trovata a fare:
«Senza fortuna, non c’è volontà che tenga (…) Imprevedibile, indomabile, inaffidabile (…) Quante volte mi ha sconfitto (…) ma io scommetto con più forza».
Ecco, l’aura del mistero è proprio qui. Quello che mi sono sempre domandata su quest’uomo grandeggiante, su questo Mito è: ma fu un balordo che si ritrovò per caso il genio, o fu un genio, perseguitato da infauste evenienze, che non seppe, per ingenuità o fragilità, fronteggiare, venendone travolto?
Di certo, le numerose denunce per aggressione e per risse parlano d’un’indole irrequieta, forse facile all’ira. Tuttavia, Caravaggio si muove nel mondo degli umili e dei reietti ed è a loro che volge il suo sguardo d’artista e la sua compassione di uomo. Un mondo che è fatto di bari, prostitute e gente di malaffare.
Eppure, nei due Bari, vediamo due giovanetti. Sembrano gemelli, invero.
Tuttavia, l’uno è quieto e dall’aria sincera, mentre, l’altro, è astuto e truffaldino.
Ecco, guardando questo quadro, la mia domanda, mi s’è riproposta imperante e ho avuto, davvero, l’impressione di star guardando in faccia l’anima del Caravaggio.
È il Cardinale Del Monte, mecenate e uomo molto colto, a notare l’arte di Michelangelo e a restarne affascinato. Lo porta a casa sua, dove ospita altri talentuosi artisti.
Questo permette a Caravaggio di farsi conoscere e la sua irrequietezza sembra placarsi.
L’arte ha per lui un’azione catartica, dove far sgorgare il meglio di sé, dove specchiarsi. Lui, la sua anima, è lì dentro, nella sua arte.
Dote suprema e indiscussa del Caravaggio è proprio quella di tradurre “la trasparenza”, come, per esempio, gli occhi del Suonatore di liuto, che sembrano traboccare di lacrime.
Questo è Caravaggio: realtà e anima.
“Caravaggio – l’anima e il sangue” ci porta dentro quell’anima e non solo, perché vengono anche raccontate peculiarità della sua arte, decisamente poco note, come, per esempio, la sua sorta di “camera oscura”.
Con certezza, la fama di Caravaggio cresce a dismisura e con essa, crescono l’invidia, le critiche, gli attacchi e i detrattori. Dicono di lui che non sappia tradurre l’azione, ma mai sfidare un genio e Caravaggio va ben oltre, traducendo l’azione nella reazione d’un volto, che sia capace di dire, anche, quello che non si vede. La sua risposta alle dure critiche è proprio lei: Medusa.
Il ritratto del dolore puro. Lo stesso che ritroviamo nel Ragazzo morso da un ramarro.
Ma, l’apice, lo raggiunge nel Sacrificio d’Isacco, ove le emozioni esplodono con potenza detonante.
L’attimo viene colto e per sempre fissato sulla tela con tutto il suo carico di strazio.
A 28 anni, nel 1599, Caravaggio riceve la commissione di due dipinti, relativi alla storia dell’Apostolo Matteo, per la Cappella Contarelli, in visione del Giubileo del 1600.
Si tratta di opere di oltre 3 metri.
Una sfida che, Caravaggio, accetta e vince.
Mentre vi lascio scoprire la storia della Vocazione, voglio soffermarmi sul Martirio e in particolare, su un personaggio sullo sfondo, che s’allontana, disgustato dalla violenza che vede rappresentata.
Quell’uomo, è Caravaggio stesso.
Torna ancora quest’anima a rivelarsi e a parlare, in modo inequivocabilmente, diretto.
Quell’anima che lo porta a vedere negli “ultimi” e nei diseredati quelli più degni d’essere rappresentati, quelli più rispondenti alla verità. Per questo, le sue modelle sono prostitute e i suoi pellegrini sono rappresentati come sudici e spesso è presente il drappo giallo, che era il segno distintivo delle prostitute ai suoi tempi.
Questo suo vedere l’“umano”, però, non piace e segna la sorte tanto della Madonna dei palafrenieri, quanto della Morte della Vergine. Due rifiuti che lo prostrano.
Purtroppo, siamo giunti al 29 maggio del 1606, data cruciale per il giovane Michelangelo.
Durante una partita di pallacorda, a Campo Marzio, Caravaggio ammazza tal Tomassoni. Scatta il bando capitale e non gli resta che fuggire.
Caravaggio va a Napoli, dov’è accolto come un dio in terra. Il prezzo delle sue opere è raddoppiato ed è osannato come un grande maestro.
Tuttavia, non è chiaro perché lasci Napoli per Malta.
Forse, perché, la sua inquietudine lo bracca e non gli lascia scampo. Dopo l’omicidio del Tomassoni, la sua irrequietezza tocca l’apice e gli incubi lo assillano.
Anche a Malta è accolto con grandi onori e il Gran Maestro dell’Ordine di Malta gli conferisce l’onorificenza di Cavaliere perché ne riconosce il genio e il merito.
Qui, Caravaggio esegue il capolavoro dei capolavori: la Decollazione del Battista.
Il successo è strepitoso, ma la Fortuna è «Imprevedibile, indomabile, inaffidabile» e si succedono eventi inspiegabili, di fatto. Lascio a voi scoprire cosa.
Caravaggio morirà, a Napoli, il 18 luglio 1610, a soli trentasette anni, in circostanze sospette e mai chiarite e il suo corpo non sarà ami ritrovato.
Caravaggio – l’anima e il sangue, è un prodotto davvero ben fatto, da gustare.
A mio avviso, pregevoli i passaggi dall’arte alla “dimensione altra”, quella dell’anima, quella del ricordo. Ricchi di simbolismi che si riallacciano direttamente all’arte del Caravaggio.
Resto, invece, più perplessa sull’interpretazione di Manuel Agnelli, la di cui dizione, non esattamente perfetta, non risulta essere l’optimum per una voce fuori campo.
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