EDGE FESTIVAL 2018: Intervista a Donatella Massimilla
EDGE FESTIVAL 2018:
INTERVISTA A DONATELLA MASSIMILLA
DENTRO E FUORI LA MANIFESTAZIONE
PER SCOPRIRNE LA STORIA, CAPIRNE IL PRESENTE E COSTRUIRE IL FUTURO
di Elisa Pedini
In occasione della partenza ufficiale dell’Edge Festival 2018, ho deciso d’intervistarne la Direttrice Artistica, una grande donna: Donatella Massimilla.
È un fatto che, con tenacia, professionalità e incrollabili passione ed entusiasmo supporta, un progetto di lavoro e di vita molto importante e sopporta, problemi e duro lavoro.
Infatti, la manifestazione che ha preso ufficialmente il via il 22 maggio, è solo la punta dell’iceberg dell’enorme lavoro che Donatella Massimilla svolge.
Per tale ragione, non solo voglio presentarvi la persona, ma anche il lungo percorso che l’ha condotta a fondare due realtà importanti: il CETEC (Centro Europeo Teatro E Carcere) Dentro/Fuori San Vittore, di cui è direttrice e l’Edge Festival, di cui è direttrice artistica.
A tal riguardo, mi piace sottolineare la profonda preparazione e professionalità, che sono alla base di tutto questo.
Effettivamente, Donatella Massimilla si laurea al DAMS a Bologna in drammaturgia con Claudio Meldolesi.
Quindi, è allieva di grandi nomi del teatro d’avanguardia del Novecento.
Tra questi, ricordo: Julian Beck (fondatore, con sua moglie Judith Malina, del Living Theatre n.d.r.), nonché il padre del “laboratorio teatrale” e del “metodo teatrale”, ovvero: Jerzy Grotowski (il suo manifesto “Per un teatro Povero”, Bulzoni, 1970 n.d.r.).
In più, si forma e lavora come attrice, prima, sia in Italia che in Europa.
Poi, diviene anche regista e drammaturga del Ticvin Società Teatro e poi del CETEC.
Con la prima associazione realizza spettacoli “al femminile” da Il Decameron delle donne a Yo Frida Kahlo e Alas Rotas, con l’ attrice spagnola Olga Vinyals Martori.
Quindi, Donatella Massimilla approda a San Vittore, al suo grande amore, il teatro in carcere, pioniera in Italia e in Europa.
Infatti, da più di venticinque anni svolge la sua attività di «teatro d’arte sociale» negli spazi “invisibili” delle carceri milanesi, ospedali psichiatrici giudiziari (per due anni a Cambridge in Inghilterra) e in altri luoghi del disagio.
Inoltre, un’altra cosa che colpisce di Donatella Massimilla è il “fuoco” che la anima e che va oltre la passione. Lo definirei una “fede” per quanto è forte il suo credere in quello che fa.
Ora lascio la parola, a lei, la grande Donatella Massimilla.
D: Donatella, potresti spiegarci la genesi dell’Edge Festival?
DM: L’Edge Festival nasce molti anni fa in Inghilterra da colleghi che avevamo conosciuto invitandoli al nostro primo Convegno Europeo di Teatro e carcere a Milano nel 1998.
In quel momento, io stavo seguendo a Milano, a San Vittore, in Francia e in Inghilterra dei progetti europei con i detenuti.
Così, iniziò un progetto con detenuti ed ex-detenuti attori, sia di San Vittore che di un carcere inglese, conosciuti e supportati da Harold Pinter, per “Altre Parole” uno studio sul Calapranzi e Victoria Station, curato da me in collaborazione con Alessandra Serra, la sua traduttrice.
Quindi, lo spettacolo fu presentato prima al Teatro La Soffitta di Bologna, chiamati da Claudio Meldolesi alla mia Università il DAMS, poi al Piccolo Teatro di via Rovello a Milano.
Inoltre, fu una delle nostre prime “libere uscite” da San Vittore.
Ancora, ne ricordo l’ emozione degli attori che facevano le prove durante il trasferimento in treno da Milano a Bologna!
Lavorare nel carcere di San Vittore non è semplice perché da un lato, molti detenuti in attesa ancora di giudizio non possono uscire, dall’altro non è nemmeno semplice far entrare il pubblico.
In più, non ci sono spazi in cui poter fare spettacoli. Ad esempio, a San Vittore c’è solo il cortile all’aria, o la biblioteca o la Rotonda.
Una sfida che io adoro quella di fare teatro dove il teatro non c’è!
Nel 2005, con CETEC, decidemmo di portare l’Edge Festival dall’ Inghilterra in Italia.
Per la precisione, a Roma, al Teatro Ambra Jovinelli, dove ci ospitò Serena Dandini.
Fu subito un vero successo!
Il termine “edge” mi piace perché vuol dire tante cose: margine, bordo, limite, confine, periferia, quindi ho voluto mantenerlo.
A seguire, trovammo tanti altri spazi extra-teatro, come per esempio l’Università di Roma 3.
Quest’idea d’uscire dallo spazio canonico del teatro mi piaceva.
Poi, decidemmo di portare l’Edge Festival a Milano.
Qui, aderimmo a un progetto europeo grazie al Bando Cultura 2000 e organizzammo un percorso di due anni dal 2010 al 2012.
Invece, negli ultimi anni, è stato molto più difficile trovare fondi.
Infatti, l’anno scorso sono stati il Municipio 5 e il Pio Istituto dei Sordi che hanno contribuito. Quest’anno s’è aggiunto il Municipio 6.
In particolare, vorrei sottolineare un importante riconoscimento. L’anno scorso, da metà estate, il Comune di Milano ci ha chiesto di presidiare con il nostro food truck ApeShakesperae “To bee or not to bee” l’Estate Sforzesca.
Anche quest’anno farà tutta la stagione dell’Estate Sforzesca, oltre, naturalmente, a seguire il nostro Edge Festival itinerante per le varie sedi.
Ecco, diciamo che l’Edge Festival si realizza con una rete di realtà che contribuiscono a sostenerci, come il Municipio 5, la Fondazione Pio Istituto Sordi e a darci ospitalità come il Municipio 6.
Infatti, abbiamo sede in quest’ ultimo Municipio all’IC Capponi, un onnicomprensivo che ha scuole ed istituti nei due municipi, e questo ci consente di dare, a nostra volta, ospitalità a giovani artisti come quelli del Dopolavoro-Stadera.
Concludendo, l’Edge Festival vuole continuare a RE- esistere e diventare anche un esempio di buona pratica da esportare anche in altre periferie.
D: Restando sul tema della RE-esistenza che in conferenza stampa hai definito il «filo rosso», il filo conduttore del Festival, potresti approfondirlo ai nostri lettori?
DM: Sì, certo!
Ho avuto la fortuna di essere stata allieva di Grotowski e da lui ho ereditato tante cose, fra cui, la idea del fare «teatro per la fame e non per la fama».
Quando avevo venti, o trent’anni, bastava il fuoco della passione per fare, anche di una passione come il teatro la propria vita.
Oggi, è diventato tutto più complesso, ci sono ancora troppe poche Fondazioni in Italia ad aiutare, tantissimi tagli di contributi pubblici..
Si punta ai giovani, ma non si sostengono, a volte né si riconoscono quelli che dovrebbero fare il passaggio di testimone.
Ciò genera confusione e poco passaggio di formazione.
Anche questa amara realtà porta alla RE-esistenza.
Fare Teatro d’Arte Sociale, tengo molto a chiamarlo così e non solo teatro sociale, per me è una scelta poetica.
Nonostante i pochi I fondi, abbiamo messo su una realtà complessa e articolata, che da lavoro a tante figure professionali diverse anche Re-esistendo comme cooperativa sociale in una fase storica in cui tutte le piccole-medie cooperative stanno chiudendo.
In conclusione, una RE-esistenza che significa, anche, uno scambio fra generazioni di nuove professionalità e di cuore, di umanità.
D: Sicuramente c’è un’umanità molto forte, percepibile e tangibile, fatta d’incontro, d’unione, di relazioni. Potresti comunicare ai nostri lettori e pubblico dell’ EDGE questa Umanità?
DM: Il cuore di tutto è l’umanità.
Il desiderio è proprio quello di coltivare l’umanità, nostra e delle persone e non solo all’interno del carcere, ma anche fuori.
Per esempio, nei nostri lavori includiamo anche attrici ex detenute che, pur avendo le loro vite, continuano a frequentarci, perché vogliono continuare a far parte di questa “famiglia”, di questa comunità allargata.
L’ altra sera, ad audioscrivere il nostro work in progress teatrale LE SEDIE contro la violenza di genere, allo scultore non vedente Felice Tagliaferri c’era Franco Milone, il nostro primo Prospero nella Tempesta di Shakespeare che trenta anni fa aveva visto il Maestro Strehler a San Vittore.
Ritengo che questo sia un esempio molto significativo ed esaustivo.
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