MARIO SCHIFANO recensione alla mostra
MARIO SCHIFANO
QUALCOS’ALTRO
RECENSIONE ALLA MOSTRA
PRESSO
Galleria GiòMARCONI
Via Tadino, 20, Milano
DAL 22 GENNAIO AL 20 MARZO 2020
di Riccardo Scharf
“Vai, ci saranno un sacco di persone tirate a lustro” – aveva detto il mio capo chiedendomi di presenziare all’inaugurazione della mostra delle opere di Mario Schifano “Qualcos’altro”, a Milano curata da Alberto Salvadori.
In effetti, entrare nella preziosa e luminosa galleria Giò Marconi di via Tadino a Milano, suscita un coacervo di emozioni tutte insieme: una mostra, di Schifano, che riprende temi proposti negli anni ‘50 e ‘60, con una valanga di persone. A me poi, che sono pure agorafobico.
Dentro, la galleria offre le opere ben illuminate, con qualche giovanotto attento a che nessuno rovini nulla.
Soprattutto, l’impressione è semplicemente inattesa.
Francamente, mi aspettavo opere sciatte e piatte.
«Fare un quadro giallo è fare un quadro giallo e basta» aveva dichiarato lo stesso Schifano all’inizio della sua avventura pittorica
Al contrario, mi ritrovo piacevolmente abbacinato da quei monocromi che non vogliono neanche sembrare qualcos’altro, ma che sono altro da ciò che si vede, da una società che ti deve catturare ad ogni costo con immagini e sensazioni.
Invece, le opere se ne stanno lì, mute, con la loro potenza inespressiva.
O meglio, espressiva comunque, come avrebbe detto il buon Greimass, perché sono dei significanti, cioè stanno sempre per qualcos’altro.
Ad esempio, Congeniale, è significativa e perfetta, nella sua semplicità.
Precisamente, il bicromatismo regolare, spezzato solo da quel bacio, rubato, appena accennato, nella parte nera, quasi a dire: ci sono, con te, ti guido, come moderno psicopompo verso il mondo infinito e infernale dell’arte.
Mentre osservo una spropositata quantità di giovani di natura eterogenea, segno che l’annullamento telematico non ha vinto del tutto nell’era della cyber-comunicazione, mi rendo conto che Schifano riesce sempre ad essere attuale.
Proprio come Caravaggio che ti piazza nella Vocazione di San Matteo la scena dell’osteria del ‘600 dove lui probabilmente andava ad ubriacarsi.
Tutto questo, mi suggerisce che in questa società dell’apparire, dove, per esistere, è semplicemente necessario sollevarsi dalla massa e raggiungere un minuto di notorietà attraverso un qualsiasi mezzo, anche un quadro tutto grigio riesce a catturare il valore assoluto con il minimo sforzo.
Così, comprendo che nel grigiume dell’appiattimento dei selfie e nell’epoca della dittatura di Instagram, la vera rivoluzione è essere completamente diverso. Proprio come dicevano i Monthy Piton.
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