Valutazione del personale: intervista a Laura Borgogni
LA VALUTAZIONE DEL PERSONALE:
INTERVISTA ALLA PROF.SSA LAURA BORGOGNI
di Elisa Pedini
Questa seconda intervista vuole presentarvi una donna straordinaria, un’accademica d’altissima profilatura mondiale, che il lavoro svolto per un Ateneo italiano nell’ambito della valutazione delle prestazioni, hot core dell’insegnamento e della formazione del Dipartimento di Business and Management di Kainós® in cui insegno, mi ha dato la grandissima opportunità di conoscere.
Come sapete, Kainós® Magazine è la testata dell’Accademia, il di cui picco d’orgoglio è l’eccellenza nell’insegnamento e nell’apprendimento.
Per tale ragione, il Magazine ha sempre proposto al suo pubblico personalità italiane eccellenti, che si sono sempre distinte nel mondo per il loro duro lavoro, per i loro risultati e contemporaneamente, per il loro spessore umano.
Di conseguenza, voglio con voi condividere la commozione sincera che deriva dall’annoverare una persona meravigliosa come Laura Borgogni tra le mie conoscenze.
Fortunatamente, la Prof.ssa Laura Borgogni non ha bisogno di presentazioni, stante la sua fama internazionale.
Perché tradurne la grandezza in poche righe, sarebbe impossibile. Non basterebbero mille articoli per dare una semplice e vaga idea della sua caratura.
Dunque, mi limiterò a dirvi che è docente ordinario all’Università Sapienza di Roma, al Dipartimento di Psicologia.
Tuttavia, ha collaborato anche con Università come la Concordia University, l’Università del Maryland, la Berkeley Univesity, tanto per citarne alcune.
Soprattutto, Laura Borgogni, nel 1993, è stata colei che, insieme ad altri colleghi tutti italiani, ha dato vita al BFQ, ovvero la specificazione e messa a punto della Big5 Theory, criticata, precipuamente, proprio per il suo essere eccessivamente generica.
In altre parole, è un colosso mondiale indiscusso. Eppure, posso garantirvi che è una persona d’una dolcezza e d’una disponibilità disarmanti.
Chiunque abbia una formazione seria nel mondo della gestione, valutazione e valorizzazione delle risorse umane, ha studiato sui suoi libri.
Personalmente, ho utilizzato: “Lo sviluppo delle persone nelle organizzazioni”, “Valutazione e motivazione delle risorse umane nelle organizzazioni”, “Valutazione e talent management – il contributo metodologico della psicologia”.
Non mi dilungo oltre e lascio a Laura la parola.
D: Nelle organizzazioni la metodologia più classica e consolidata per la valutazione del personale sembrerebbe quella cosiddetta delle tre P: posizione, prestazione, potenziale. Che ne pensi?
LB: «Ad oggi, le metodologie riconducibili alle 3P non sono più ampiamente utilizzate, la valutazione della posizione, la prima delle 3P, ad esempio, viene sempre di meno rilevata perché le posizioni sono soggette a frequenti cambiamenti e sempre di più sono le persone a riempire di contenuti le posizioni che ricoprono attraverso il ruolo da loro esercitato.
Il concetto di posizione andava bene e va bene in contesti molto rigidi e strutturati.
Oggi, il panorama delle aziende non è così.
Inoltre, l’analisi e quindi, la valutazione delle posizioni è un lavoro che richiede molto tempo.
A causa della forte e costante fluidità dei contesti lavorativi, non si fa a tempo a finire il processo, che si deve rivedere tutto.
Per quanto riguarda la IIP, la “prestazione”, anche qui l’idea primigenia che la sottendeva è un po’ in disuso e ci si orienta più verso il cosiddetto performance management.
Innanzi tutto, per svincolarsi dall’accezione negativa che l’idea del “valutare” porta in sé e per focalizzarsi su quella più costruttiva dello sviluppo costante.
Dunque, in quest’ottica s’inserisce la IIIP, il “potenziale”, quella più interessante, se vogliamo.
Accademicamente, ci vorrebbe proprio un collegamento, tra le due fasi, in un’ottica di sviluppo e crescita.
In altri termini, prendo la persona da quando la assumo e la seguo nel suo sviluppo e nella sua crescita per tutto il suo percorso carrieristico.
Infatti, il concetto vero di talent management è un processo di crescita.
Tuttavia, spesso, nella pratica, i processi di valutazione restano scollegati.
Certo, hanno oggetti diversi e differenti sono i valutatori: nel performance management ad esempio il primo referente è il capo, nel secondo sono dei professionisti HR.
Seppur sussistano delle diversità, il modello di riferimento che si utilizzano possono rappresentare il filo conduttore.
Ad esempio, il modello dei BIG5 può essere utilizzato per rilevare i tratti di personalità nella selezione, ma anche come riferimento teorico per la costruzione dei modelli di competenze da utilizzare nel performance management.
Infatti, attraverso di esso, si può seguire un frame entro il quale ricondurre le competenze ed i comportamenti attesi.
Dunque, si identifica la personalità come caratteristica di potenziale in entrata, come riferimento per la declinazione comportamentale nel performance management e poi ancora nel potenziale.
Anche nel potenziale, ovvero la valutazione di ciò che la persona potrebbe fare di diverso in futuro vale ancora la rilevazione della sua personalità, magari ad un livello più approfondito».
D: Focalizzandoci sul panorama italiano. Secondo la tua profonda esperienza, tanto in ambito accademico quanto aziendale, potresti fornircene una fotografia aggiornata?
LB: «Sì, ho una visione piuttosto diretta e aggiornata della situazione, non solo per visione diretta; ma anche perché invito sempre i miei studenti a fare interviste in grosse aziende.
Possiamo dire che il performance management, oggi, lo abbiano adottato tutti.
Però, ci sono due principali criticità: primo, gli strumenti utilizzati non sono sempre metodologicamente corretti portando inevitabilmente ad errori di valutazione; secondo, la formazione dei capi, è di solito fatta troppo frettolosamente e prevalentemente ancorata al trasferimento delle informazioni per la compilazione degli strumenti senza pensare all’importanza di valorizzare l’introduzione al performance management come pretesto per sviluppare le capacità di gestione dei capi.
Infatti, non si tratta di compilare solo una scheda.
Ad esempio, molte aziende lasciano come facoltativo il colloquio in itinere di verifica tra capo e collaboratore, la conseguenza è che spesso non viene mai fatto.
Non bastano due giorni di formazione per sviluppare un vero capo.
Spesso, l’azienda spende più sui software che sulla formazione delle persone.
Ciò accade perché, spesso, l’azienda sa poco di come vengano costruiti i modelli di valutazione e quali siano le possibili ricadute in termini gestionali.
Invece, l’azienda dovrebbe essere coinvolta ed essere partecipe per verificare e guidare l’approccio».
D: Occupandomi proprio di percorsi formativi, tanto in aziende, quanto con enti d’istruzione, non posso che confermare quanto mi dici. Spesso, le aziende si mostrano disinteressate alla formazione, persino laddove questa possa essere finanziata integralmente. Inoltre, alle volte, piuttosto che alla qualità della formazione, prestano acquiescenza ad altro. In più, anche a livello accademico, non vedo una forte spinta nella formazione approfondita delle nuove leve. Dal tuo punto di vista di luminare internazionale, come vedi tutto questo?
LB: «Oltre a quello che ho già detto, non posso che confermare e dire che spesso la discrepanza metodi/obiettivi è dovuta alla mancanza di formazione.
In tal senso, proprio con l’obiettivo di formare a fondo e di sviluppare tutti quegli aspetti psicologici, di diritto, ecc. che sono necessari e fondamentali per preparare il professionista nell’ambito delle HR, qua alla Sapienza, abbiamo in cantiere un nuovissimo percorso di laurea magistrale, denominato “Risorse umane, scienze del lavoro e innovazione”, che ha già positivamente superato tutti i primi step e che, pertanto, dovrebbe attivarsi a settembre».
D: Per svolgere al meglio il mio lavoro, devo studiare costantemente e quindi, ho potuto leggere molte tue pubblicazioni e mi piacerebbe approfondire un aspetto relativo al potenziale, che ho trovato d’un’importanza e d’un interesse profondi. Parlo del tuo “potenziale agentico”. Potresti illustrarlo ai nostri lettori?
LB: «Sì, certo. Il “potenziale agentico” è un concetto che sto portando avanti sia nella ricerca che nella pratica organizzativa.
Esistono diversi modi di leggere il potenziale.
Qui, insisterei sul fatto che i modelli vanno costruiti con una metodologia scientifica e precisa.
Poi, per portare un esempio, l’assessment center, il metodo più diffuso per valutare il potenziale, spesso si ferma a valutare le competenze attese (potenziale relativo o assoluto) e raramente indaga sulla proattività, sulla capacità di capire il contesto e agire in maniera trasformativa su di esso, ovvero, sulla capacità di agire, di essere agenti, di mettersi in moto, modificare se stessi, ma anche la resilienza e la gestione delle emozioni.
È qui, che entra in gioco il “potenziale agentico”.
Luthans parla di “capitale psicologico” e con lui abbiamo avuto modo di lavorare ad una ricerca.
Si tratta di rilevare caratteristiche quasi più importanti delle competenze di cui la persona è portatrice.
Oggi, per esempio, si parla molto di “agility”; ma essa si basa su caratteristiche personali, come: l’autoefficacia, l’autoriflessione, la capacità di rielaborare le esperienze di vita per poterle riutilizzare.
In quest’ottica, l’assessment center si deve necessariamente integrare con test e colloqui ad hoc.
Il focus attuale dev’essere sugli “oggetti” della valutazione e tra questi anche la motivazione, aspetto fondamentale da intercettare con strumenti atti all’uopo come test e colloqui, appunto».
D: Oltre al “potenziale agentico” stai effettuando qualche altro approfondimento su possibili sentieri d’intervento?
LB: «In verità, sì.
Mi sembra interessante, tra gli oggetti di valutazione, insieme alle competenze e le potenzialità individuali rilevare anche il commitment e l’engagement della persona.
Trattasi di altri aspetti molto importanti, che possono di fatto essere rilevati anche dal comportamento messo in atto da una persona.
La condivisione dei valori, l’impegno negli obiettivi organizzativi, l’identificazione con la propria organizzazione sono tutti aspetti importanti che, vanno considerati.
Non è vero che non sono osservabili.
Infatti, possono essere colti attraverso l’osservazione del comportamento del collaboratore. Certamente i modelli di competenza sono efficaci perché guidano il capo nella valutazione.
Ma, se lo guido solo nella lettura e decodifica dei comportamenti e non sulle tracce psicologiche che gli consentano di comprendere i “perché”, le determinanti d’un certo comportamento; di fatto, non lo metto in condizione di assegnare obiettivi sfidanti, quindi, di motivare, né di capire davvero le capacità della persona che ha davanti».
La valutazione del personale:
– Intervista al Prof. Andrea Castiello D’Antonio