Intervista al regista Edoardo Anselmi
EDOARDO ANSELMI
L’arte di fare regia
INTELLIGENTE, ECLETTICO, TALENTUOSO
IL REGISTA DEL DOCUMENTARIO
BANKSY E LA RAGAZZA DEL BATACLAN
CI PARLA DI SÉ E DEL SUO LAVORO
di Elisa Pedini
Dopo aver visto il valore del documentario Banksy e la ragazza del Bataclan, si voglia per il prodotto tecnicamente ottimo, sia dal punto di vista del reportage che cinematografico, o per deformazione professionale, o per l’amore che ho verso Parigi che considero la mia seconda città natale, ho deciso che la mia critica fosse solo ed esclusivamente tecnica e di lasciare a Edorado Anselmi, il regista, la voce e l’anima del suo lavoro.
Tra l’altro, mi sono ritrovata di fronte un uomo molto simpatico, estremamente gentile, eclettico, intelligente e anche molto umile. Non c’è stato istante in cui non abbia sottolineato il supporto del team e della produzione.
Ma, mi faccio da parte e lascio a Edoardo Anselmi la parola.
D: Com’è nata l’idea del progetto Banksy e la ragazza del Bataclan?
EA: «L’idea è venuta a Claudio Centioni quando uscì la notizia del ritrovamento della porta. Per quanto il furto avesse fatto scalpore, il ritrovamento finì nei trafiletti di cronaca.
In verità, era una notizia che portava in sé dell’incredibile. Un oggetto rubato che parte da Parigi per finire nella soffitta di un Casolare sperduto in Abruzzo.
Così, Claudio insieme a Carlo Ghiani cominciarono a lavorarci, a raccogliere materiale, a ricostruire la storia.
Poi, mi tirarono in ballo per la fase di sviluppo.
Ci ritrovammo, che la storia stessa di questo furto, nel suo svolgersi, aveva dell’incredibile: i colpevoli erano una sorta di Banda del buco, il coperchio era saltato per gelosia e il finale, che poi non è un finale, era perfettamente in linea con gli eventi».
D: Edoardo, il documentario mostra uno schema sistemico da reportage d’inchiesta, ma un ingaggio da thriller movie, cosa che sottende un’esperienza eclettica, ce ne vuoi parlare?
EA: «In effetti, mi sono ritrovato a fare cose diverse tanto nella fotografia quanto nella regia e sugli argomenti più svariati: dall’inchiesta, alla cronaca, allo storytelling.
Diciamo che lavoro con le immagini perché credo nella loro potenza.
Mi piace entrare nei contenuti ed entrare nelle storie ed entrare nelle persone che hanno fatto quelle storie.
Credo che niente come un’immagine possa trasmettere tutto questo».
D: Dal tuo lavoro e dalle tue parole emergono intelligenza, profondità e serietà. Parlaci un po’ di Edoardo Anselmi, la passione per arrivare fino a qui, quand’è nata?
EA: «La passione è nata durante il periodo universitario. Studiavo Scienze della Comunicazione a Roma, ma non sapevo davvero cosa fare “da grande”.
Lì, fu il compagno di mia madre, appassionatissimo cinefilo, che mi suggerì di provare ad approfondire l’ambito cinematografico.
Così, m’iscrissi a un corso gratuito di montaggio della Regione Lazio, ma proprio per provare. Invece, m’accorsi che mi piaceva.
Per pura casualità, durante il corso, ebbi la fortuna di partecipare a un progetto stratificato e complesso dove, di fatto, imparai tutto.
Con la pratica, lo sbattere la testa sui problemi e il lavoro duro, capii davvero cosa serviva nel montaggio per ottenere un prodotto di qualità. Questo è stato fondamentale per il lavoro d’operatore, prima e di regia, poi.
Quando rientravo dalle riprese, avevo già raccolto tutte le immagini che servivano al montaggio.
Poi, Nemo ha rappresentato il vero salto di qualità a livello di raccontare storie, vite, persone».
D: A tal riguardo, il documentario riporta per un verso e suscita per l’altro un forte impatto tanto psicologico quanto emotivo, oltre a indurre lo spettatore a considerare tutti gli aspetti e a porsi delle domande. Ecco, questa curiosità a entrare dentro persone e situazioni e questa spinta a interrogare/interrogarsi sono una deformazione professionale, o attitudine caratteriale?
EA: «Eh bella domanda! Penso di avere una curiosità, che definirei semplicemente “umana”. Forse, qui, è la mia matrice buddhista a guidarmi, ma non penso d’avere particolari doti in tal senso.
Mi piace che il mio lavoro abbia un valore, lasci qualcosa. Mi piace usare il mio lavoro per incontrare le persone e con loro, insieme, creare qualcosa, lasciare in qualche modo una traccia.
In questo senso, è stata molto importante l’esperienza del programma Nemo, in RAI. Un esperimento straordinario, brillante proprio come progetto. Portavamo nello schermo la realtà, la Vita, attraverso i veri protagonisti: le persone. Raccontavamo storie che non entravano in cronaca, ma che facevano molto di più: la realtà stessa.
Per quanto riguarda l’interrogarsi, beh, di carattere sono una persona pratica, quindi, credo che l’esperienza professionale mi abbia portato all’interrogazione.
Do molta importanza al contesto e alle persone che vi si muovono dentro.
Credo che sia parte formante del mio lavoro dare e creare valore e trasmetterlo.
Per esempio, nel caso specifico del documentario, è emerso qualcosa di potente che ha del magico.
Il mio lavoro era restituire tutti gli aspetti della vicenda: dalla semplice porta di ferro e questo è l’oggetto, al disegno sopra e questa è Street Art, alla tragedia per i lutti, la distruzione, il tradimento e questa è la Francia, al simbolo di memoria e dolore e questa è l’Umanità tutta».
D: Dunque, studio e duro lavoro sono il segreto per arrivare a produrre un gioiellino come Banksy e la ragazza del Bataclan?
EA: «Sicuramente sì, senza non vai da nessuna parte.
Tuttavia, questo documentario ha visto la luce con pochissime risorse sia economiche che umane.
Nel mio caso, il team è stato fondamentale, a partire da Claudio (Centioni, n.d.r.) che ha dato il “la” a tutto.
Ma, oggi, il talento e l’impegno, purtroppo, non sempre bastano.
Adesso, c’è un bisogno spasmodico del “nome”. Tutti a cercare il “nome”.
Pertanto, molto spesso, puoi avere talento e grandi idee, ma, poi, il progetto viene dato a qualcun altro che ha il “nome”.
In conclusione, sì, ci sono preparazione e duro lavoro dietro; ma è anche doveroso ringraziare Gioia Avvantaggiato, Carlo Ghiani e la GA&A Productions per aver creduto in noi e averci così consentito di trasformare il progetto in produzione».