PILLOLE DI: Ippolito Pindemonte
PILLOLE DI:
LETTERATURA ITALIANA
IPPOLITO PINDEMONTE
POETA NOBILE E SENSIBILE
DEL CLASSICISMO PREZIOSO ED EQUILABRATO
E DEL ROMANTICISMO MALINCONICO
AL DI FUORI DEI GRANDI NOMI
UNO SPACCATO DELLA SITUAZIONE LETTERARIA
E DEGLI INTELLETTUALI MEDI ITALIANI
di Elisa Pedini
La figura di Ippolito Pindemonte ci va a definire ulteriormente il sostrato dell’intelligentia italiana e ci chiude il primo discorso del periodo in esame.
Infatti, fedele al tipo di didattica che viene applicata in aula, la rubrica Pillole di: … ne segue con rigore la traccia.
In tal senso, i nomi sono ricorrenti negli articoli proposti proprio perché parliamo di vita vissuta, di persone reali e che, come tali, hanno le loro relazioni interpersonali.
Tuttavia, questi nostri avi, oltre a essere persone, erano anche intellettuali e dai loro rapporti scaturivano: confronto, crescita, riflessioni, libera veicolazione della cultura, influenze di pensiero e di azioni.
Ecco che, una figura distintiva, seppur minore, qual è quella di Ippolito Pindemonte ci aiuta a entrare ancor di più in tali rapporti e a meglio capirli.
Ne consegue che si possa comprendere in maniera lineare e naturale, lo sviluppo delle loro opere e quindi, della letteratura sia italiana che europea.
Pertanto fra le sue frequentazioni e amicizie, troviamo: Ugo Foscolo, Vincenzo Monti, Ludovico di Breme, Silvio Pellico, Vincenzo Cuoco.
Conoscerà Rousseau, Stendhal, Lord Byron e molti altri altri intellettuali europei.
Ippolito Pindemonte, è il figlio minore d’una nobile famiglia veronese.
È intellettuale e letterato di rara sensibilità e finezza, naturalmente curioso; classicista di formazione è affascinato dalle nuove forme di sensibilità europea e imprime nella sua opera il suo animo coraggioso, ma equilibrato.
Tuttavia, attenzione, intellettuale sensibile e malinconico; ma estremamente indipendente, acuto e fermo nelle sue posizioni, seppur mai belligeranti.
Tanto che prenderà le distanza dalle riottose infiltrazioni rivoluzionarie, la diffidenza lo porterà a prenderle anche dal regime napoleonico e da quello austriaco.
Ben lo ha definito Marco Cerutti quale emblematico interprete della «stagione del disincanto».
In realtà, «il disincanto» è un atteggiamento comune a molti intellettuali e letterati italiani in questo periodo.
Infatti, disorientati dalle trasformazioni politiche e delusi dalle vane promesse, si sottraggono all’impegno politico, alla vita pubblica per rifugiarsi in un mondo bucolico, quasi arcadico, in mezzo alla natura e lontani da tutto e da tutti.
Al contrario, il disincanto d’Ippolito Pindemonte è di natura diversa. Egli non fugge nella natura, ma vi cerca conforto.
Esattamente, già nella prima pubblicazione Prose e poesie campestri, ci chiarifica la sua poetica.
In particolare, nella canzone La melanconia, scritta in 9 strofe geminate, ciascuna composta da due quartine di versi quinari: piani i primi tre e tronco il quarto. La rima è alternata e lega le due quartine secondo uno schema preciso: A-B-A-C/D-B-D-C. La parola è ricercata e raffinata.
Tuttavia, in questa struttura arcadicamente classica, pulita, lirica, troviamo l’influenza romantica del vagheggiamento della natura (se di fuga vogliamo parlare, non è un sottrarsi fisico, ma metaforico), del dialogo con la natura e/o con le divinità classiche (qui è richiamata Venere), la ricerca della solitudine, il ritiro in meditabonde riflessioni.
Mi piace riportare l’ultima strofa, ove troviamo un riferimento preciso:
Mi guardi amica
la tua pupilla
sempre, o pudica
ninfa gentil;
e a te, soave
ninfa tranquilla,
fia sacro il grave
nuovo mio stil.
Gli appellativi «ninfa gentile» e «ninfa tranquilla» sono riferiti alla malinconia.
In Pindemonte, la malinconia è «gentile» perché non intende farsene travolgere. Non è presenza oppressiva, ma compagna.
Come, del resto, ci dice chiaro nella III strofa: «Né può di tempre/cangiar mio fato:/dipinto sempre il ciel sarà», la Natura è rinfrancatrice dell’animo umano.
Amante dei poeti inglesi, deve aver chiaro Wordsworth e quella incrollabile speranza che sempre la Natura ha il potere di far nascere/rinascere e in essa si culla e si ristora qualunque peso del cuore, qualunque malinconia.
Ecco, poi, la conclusione e quel «grave» riferito alla sua poesia. Esattamente, intende lasciare le forme mondane e stereotipate della poesia, in favore di temi nuovi, più intimi, autentici, veritieri.
Infatti, Ippolito Pindemonte, s’interesserà particolarmente alla cosiddetta poesia cimiteriale di un Thomas Gray, oltre alle poesie ossianiche.
Dopo l’Editto di Saint-Cloud che imponeva lo spostamento dei cimiteri fuori dalle mura cittadine, il poeta, molto credente, si sente civicamente obbligato a difendere tali luoghi quali simboli di un culto tanto religioso quanto affettivo, sostenendo che tale posizione legislativa andava contro alla tradizione del culto dei defunti.
In tal senso, voglio rammentare che tale culto esisteva già dai tempi antichi tanto in Grecia quanto a Roma e pertanto, esso ha una doppia valenza per il Pindemonte: come letterato classicista e come persona di fede.
Pertanto, scrive I Cimiteri, poemetto in ottave.
Tuttavia, ne sospenderà la stesura dopo trentotto ottave, quando saprà da Isabella Teotochi Albrizzi che, Ugo Foscolo, dal suo esilio londinese, ha principiato a scrivere un poema sul medesimo argomento.
Probabilmente a sua volta informato dalla Albrizzi, Ugo dedica al suo «dolce amico» il poema I Sepolcri, invocandolo più volte nel testo.
Ippolito risponderà con un poema dal medesimo titolo.
Qui, ancor più vale quanto già premesso perché leggerli accostati è sublime!
Da un lato, il veemente Ugo, agnostico e anticlericale, che difende i cimiteri sulla base della tradizione classica e quindi, civica.
Dall’altra, il pacato e credente Ippolito che, egualmente li difende, ma puntando su un discorso più religioso: la resurrezione dei corpi promessa da Dio.
Infine, va a Ippolito Pindemonte il merito d’averci consegnato una splendida traduzione dell’Odissea.