La “solitudine organizzativa”: il “battitore libero”

Intervista al Prof. Andrea Castiello D’Antonio

 

 

La “solitudine oganizzativa”: il “battitore libero”

 

 

 

di Elisa Pedini

 

 

 

Relativamente alla tematica della “solitudine organizzativa”, ovvero il senso di solitudine, o d’isolamento sociale, le sfaccettature sono tantissime e plurime le casistiche per ciascuna di esse.

Fenomeno incredibilmente attuale, talvolta drammatico, ma di cui si parla davvero troppo poco al di fuori degli specifici ambiti speculativi.

Spesso, persino tra gli stessi diversi settori di specializzazione che approcciano la tematica non se ne parla, non ci si confronta.

Con questo breve approfondimento s’intende fare un piccolo passo, mettendo un po’ più in luce un singolo aspetto e un particolare tipo di persona: il “battitore libero”, come lo ha definito l’eminente Prof. Andrea Castiello D’Antonio.

Infatti, non solo ha sollevato la problematica con un suo articolo; ma, ha anche accettato di cominciare ad approfondire questo profilo.

Già piacevolmente noto al pubblico di Kainós® Magazine, lascio con piacere la parola ad Andrea.

 

D: La fenomenologia in questione è molto ampia. In questa sede andiamo a buttare un semplice sguardo su un solo aspetto: quello del “battitore libero”. Potresti inquadrarci il tipo di persona?

ACD: «Innanzitutto, va preso in considerazione l’aspetto iniziale per dare un quadro generale ove inserire il discorso.

Il mondo del lavoro spinge a creare una realtà verticalizzata, conformata e conformante, omologata e aderente alle aspettative dei vertici, in cui l’individuo è spinto a fare di tutto per essere positivamente accolto e riconosciuto.

Ma, il desiderio di entrare a far parte di un gruppo, e sentirsene parte riconosciuta e formante, non è solo una questione d’integrazione.

Infatti, entrano in campo molti fattori psicologici più profondi, come l’autostima, la dimensione del senso del Sé.

Inoltre, sappiamo tutti per esperienza che è umano volersi sentire accolti per ciò che si è, come persona, nella sua totalità. L’autostima è, dunque, fortemente collegata all’identità. Quello che l’individuo chiede è: «riconoscimi per come sono» e non solo per ciò che faccio e so fare.

Chiarito questo, come detto, la tematica ha tante sfaccettature e ne consideriamo solo una: quella del “battitore libero”».

 

D: Potresti definircelo e farci qualche esempio di reazione comportamentale che una persona così potrebbe presentare sul luogo di lavoro?

ACD: «Sì, certamente.

Ci sono persone che tendono a difendersi a ogni costo dall’omologazione per carattere, o per la posizione che ricoprono, o ancora per il ruolo che svolgono.

Nel caso di manager o di leader aziendali, l’aspetto che fa entrare in sofferenza la persona è la dimensione della verticalizzazione, che dà luogo alla “solitudine organizzativa”.

Nel momento, e accade spesso, che queste persone devono prendere decisioni, si ritrovano da sole, impossibilitate al confronto. Una causa fondamentale di questo senso di solitudine è da ricercarsi nel fatto che non sono sicure di potersi fidare delle persone che hanno intorno. A volte, sono decisamente scettiche e sospettose: ogni soggetto a loro vicino può rivelarsi un pericoloso competitore, qualcuno che aspira a scalzarlo dalla posizione in cui è.

Poi, un’altra reazione è l’ambivalenza; pur tenuto conto che tale dimensione fa parte dell’essere umano e anche del rapporto individuo-organizzazione.

l sentimento ambivalente scaturisce dal conflitto tra desiderio di confrontarsi e dialogare, e paura di farlo, esponendosi ad attacchi.

Inoltre, in un ambiente rigidamente organizzato, ci troviamo a tenere una debita distanza dallo stesso, ma contestualmente, aderirvi. Infatti, se si assumesse un’eccessiva distanza, si finirebbe per essere ancor più isolati, messi ai margini, espulsi. Tuttavia, entrarci troppo dentro, comporterebbe il rischio di perdere la propria identità di persona, come individuo, come essere unico».

 

D: Quindi tu vedi l’ambivalenza come un elemento significativo nelle realtà di lavoro?

ACD: «Come accennato, la dimensione dell’ambivalenza è ovunque nella relazione con il lavoro.

Infatti, se per un verso le aziende spingono verso l’innovazione chiedendo alle persone di essere diversi, innovativi, creativi, di trovare nuove soluzioni ed idee; per l’altro esigono dalle stesse persone l’adattamento, l’esecuzione, l’aderenza ai compiti da eseguire.

Infine, vi è la figura del “battitore libero” assoluto.

Qui, la situazione si fa ben più complessa.

Di solito sono persone che ricoprono ruoli particolari, come per esempio i ricercatori.

Sono persone che s’identificano con la loro professione, ma non con l’azienda, con l’organizzazione. Sono consapevoli che vivono sulla linea di confine: un piede dentro e uno fuori. A loro basta un solo passo per andare a lavorare altrove, o per sentirsi psicologicamente del tutto estranei al contesto organizzativo.

Concludendo, anche per il “battitore libero” vale il principio della saggia ricerca di una via di mezzo: un punto di equilibrio tra la persona che è, o che vorrebbe fosse percepita dagli altri e il ruolo che ricopre. E qui gioca moltissimo il bilanciamento che si può creare tra interiorità ed esteriorità.

Quanto può davvero esprimersi questa persona?

Quanto e cosa deve nascondere/mimetizzare di sé stessa?

Questo punto è importantissimo. Qui si gioca molto della motivazione profonda al lavoro, così come della dialettica tra le attese ed il dovere, tra l’innovatività e l’esecutività, tra il gestire l’esistente ed il proporre nuove vie».

 

 

 

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